Di tutte le qualità del cuoco, la più necessaria è la puntualità!
Io fondo questa massima sui particolari di un’osservazione fatta in un convegno di amici, di cui facevo parte, quorum magna pars fui, e dove il piacere di osservare mi salvò dalle angustie della noia.
Ero, un giorno, invitato a pranzo da un alto funzionario pubblico. Il biglietto d’invito era per le cinque e mezzo, e al momento indicato c’erano tutti, perché si sapeva che al padrone piaceva la puntualità e che, a volte, rimproverava i ritardatari.
Arrivando, fui colpito dall’aria desolata che vidi nelle facce degl’invitati: si parlavano l’un l’altro all’orecchio, guardavano nel cortile attraverso i vetri della finestra, alcuni visi avevano un’espressione di stupore. Certo era accaduto qualcosa di straordinario.
Mi avvicinai a quello, tra gl’invitati, che mi parve più adatto a soddisfare la mia curiosità e gli domandai che ci fosse di nuovo.
«Ahimè!», mi rispose col tono della più profonda afflizione, «il principe è stato chiamato poco fa al Consiglio di Stato: va via ora e chissà quando tornerà!».
«Tutto qui?», risposi con un’aria indifferente che non corrispondeva affatto al mio intimo sentimento. «Sarà il male d’aspettare un quarto d’ora tutt’al più: avranno avuto bisogno di lui per un’informazione; sanno che oggi egli ha un pranzo ufficiale; non c’è nessuna ragione per farci digiunare».
Parlavo così, ma nel fondo dell’anima ero inquieto e avrei voluto essere mille miglia lontano.
La prima ora passò bene: ognuno si sedette vicino a qualche persona di conoscenza; si dette fondo agli argomenti ordinari di conversazione e ci divertimmo a far delle supposizioni circa il motivo che aveva potuto far chiamare alle Tuileries il nostro caro anfitrione.
Alla seconda ora si cominciò a notare qualche segno d’impazienza: gl’invitati si guardavano fra loro con inquietudine, e i primi che mormorarono furono tre o quattro, i quali, non avendo trovato un posto a sedere, non erano in posizione comoda per aspettare.
Alla terza ora il malcontento fu generale e tutti si lamentarono.
«Quando tornerà?», diceva uno. «A che cosa pensa?», diceva un altro. «C’è da morire», diceva un terzo.
E, senza rispondere, ciascuno si faceva la stessa domanda: «Si va via? Si resta?».
Alla quarta ora tutti i sintomi si aggravarono: la gente si stirava senza curarsi del vicino; da ogni parte si sentivano sbadigli canori; tutti i visi avevano un colore che tradiva la concentrazione. Nessuno mi diede retta quando osai dire che l’uomo di cui si deplorava tanto l’assenza era certo più seccato di noi.
L’attenzione fu per un momento distratta da un’apparizione. Uno degl’invitati, più in confidenza degli altri, entrò nelle cucine e ne tornò tutto affannato: il suo viso annunziava la fine del mondo, ed egli esclamò con voce appena articolata e con quel tono sordo che esprime insieme la paura di far rumore e il desiderio d’essere udito:
«Il principe è partito senza lasciare ordini, e, breve o lunga che sia la sua assenza, non si va a tavola finché non ritorna».
Disse — e l’effetto prodotto dalla sua allocuzione non sarebbe stato sorpassato da quello della tromba che annuncerà il giudizio finale.
Fra tutti quei martiri, il più infelice era il buon d’Aigrefeuille, che tutti a Parigi hanno conosciuto: il suo corpo era tutto un dolore, e lo spasimo di Laocoonte gli si leggeva in viso. Pallido, sgomento, senza veder nulla, si accoccolò in una poltrona, incrociò le piccole mani sul pancione e chiuse gli occhi — non per dormire, ma per aspettare la morte.
Ma la morte non venne. Verso le dieci si udì una vettura entrare nel cortile: tutti si alzarono di scatto. L’allegria succedette alla tristezza e, cinque minuti dopo, eravamo a tavola.
Ma l’ora dell’appetito era passata. Eravamo come stupiti di cominciare il pranzo a un’ora così indebita: le mascelle non ebbero affatto quel movimento isòcrono che annuncia un lavoro regolare; e seppi poi che parecchi commensali ebbero qualche indisposizione.
La regola indicata, in casi simili, è di non mangiare subito appena cessato l’ostacolo, ma d’inghiottire un bicchier d’acqua zuccherata o una tazza di brodo, per confortare lo stomaco; poi di aspettare dodici o quindici minuti, altrimenti lo stomaco sconvolto rimane oppresso dal peso degli alimenti con cui viene sovraccaricato.
tratto da: Fisiologia del Gusto, Ovvero Meditazioni di Gastronomia Trascendente. Di Anthelme Brillant-Savarin
