«Sapete che vi dico?», esordì Ermolaj entrando nell’isba dove avevo appena finito di pranzare e mi ero sdraiato su una branda per riposarmi un po’ dopo una caccia ai galli cedroni fruttuosa, ma estenuante; eravamo nella seconda decade di luglio e il caldo era terribile…
«Sapete che vi dico: abbiamo finito tutti i pallini».
Balzai su dalla branda.
«Abbiamo finito i pallini! Come può essere? Ne avremo presi, metti, una trentina di libbre dal villaggio! Un sacco intero!».
«Proprio così! Ed era un bel sacco grosso, sarebbe bastato per due settimane. Ma chissà! Forse c’era uno strappo, certo sì è che non abbiamo più pallini… ne saranno rimasti a sufficienza per dieci cariche».
«Che facciamo allora? I posti migliori devono ancora venire, per domani ci avevano promesso sei nidiate…».
«Mandatemi a Tula. Non è lontano da qui: in tutto quarantacinque verste. Ci arrivo in un batter d’occhio e vi porto i pallini, un intero pud, se volete».
«Ma quando partiresti?».
«Anche adesso. Perché indugiare? Solo che dobbiamo noleggiare dei cavalli».
«Come, noleggiare dei cavalli! E i nostri allora?».
«Non posso andarci con i nostri. Il timoniere si è azzoppato… un guaio!».
«E da quando?».
«Qualche giorno fa, il cocchiere lo aveva portato a ferrare. E lo ha ferrato. Forse il fabbro non era bravo. Adesso non può nemmeno poggiare il piede. La zampa anteriore. La tiene così… come un cane».
«Allora? Lo avete almeno sferrato?».
«No, non lo abbiamo sferrato, ma bisogna assolutamente farlo. Gli hanno ficcato un chiodo intero nella carne».
Mi feci chiamare il cocchiere. Risultò che Ermolaj aveva detto il vero: il timoniere non poteva davvero poggiare la zampa per terra. Detti immediatamente disposizioni che lo sferrassero e lo mettessero sull’argilla umida.
«Allora? Ordinate di noleggiare i cavalli per Tula?», insisté Ermolaj.
«Potremo pure trovare dei cavalli in questo buco?», esclamai involontariamente stizzito…
Il villaggio in cui ci trovavamo era isolato, abbandonato, tutti gli abitanti sembravano dei poveracci; con difficoltà avevamo trovato un’isba certo non linda ma almeno un po’ spaziosa.
«È possibile», rispose Ermolaj imperturbabile come sempre.
«Avete detto bene di questo villaggio, eppure qui viveva un contadino. Intelligentissimo! Ricco! Aveva nove cavalli. Adesso lui è morto e il suo figlio maggiore comanda tutti. È un imbecille matricolato, ma non è ancora riuscito a sperperare i beni del padre. Chiederemo a lui i cavalli. Se volete ve lo porto. I suoi fratelli, si dice, sono dei dritti… eppure è lui che comanda».
«E perché?».
«Perché è il maggiore! E i più giovani devono ubbidire!».
A questo punto Ermolaj se ne uscì con un’espressione colorita e indecente sui fratelli minori in generale.
«Ve lo porto. È un semplicione. Con lui come si fa a non intendersi?».
Mentre Ermolaj si recava dal “semplicione”, io pensai che andare io stesso a Tula sarebbe stato meglio. In primo luogo, ammaestrato dall’esperienza, mi fidavo poco di Ermolaj, una volta lo avevo mandato in città a fare spese, lui aveva promesso di sbrigare tutte le commissioni in un giorno solo e invece sparì per un’intera settimana, si bevve tutti i soldi e tornò a piedi, mentre era partito in calesse. In secondo luogo, a Tula conoscevo un mercante di cavalli dal quale avrei potuto comprare un cavallo al posto del timoniere azzoppato.
«È deciso!», pensai.
«Ci vado io, potrò dormire anche durante il viaggio, tanto il tarantas è comodo».
«Ve l’ho portato!», esclamò un quarto d’ora dopo Ermolaj irrompendo nell’isba.
Lo seguiva un contadino robusto in camicia bianca, pantaloni azzurri e lapti, biondiccio, miope, con il pizzo rossiccio, un lungo naso gonfio e la bocca spalancata. Aveva proprio l’aria di un “semplicione”.
«Ecco qui», disse Ermolaj, «ha i cavalli ed è d’accordo».
«Cioè, dunque, io…», iniziò a dire il contadino con voce un po’ rauca e inceppandosi, scuotendo i radi capelli e tormentando l’orlo del berretto con le dita.
«Io dunque…».
«Come ti chiami?», domandai.
Il contadino abbassò il capo come se ci stesse a pensare.
«Come mi chiamo io?».
«Sì, qual è il tuo nome?».
«Il mio nome è Filofej».
«Allora, la faccenda è questa, fratello Filofej: ho sentito che hai dei cavalli. Portamene tre e noi li attaccheremo al tarantas, – il mio è leggero – e tu, mi accompagnerai a Tula. È una notte di luna, fresca e luminosa. La strada da voi com’è?».
«La strada? Non c’è male. Ci saranno solo una ventina di verste sino alla strada maestra. C’è solo un punto… brutto, per il resto va bene».
«Com’è questo punto brutto?».
«Bisogna guadare un fiumicello».
«Perché ci andate voi stesso a Tula?», s’informò Ermolaj.
«Sì, ci vado io».
«Ah!», commentò il mio servo fedele e scosse la testa.
«Ah!», ripeté, sputò e uscì.
Il viaggio a Tula evidentemente non presentava più alcuna attrattiva per lui, era diventato una faccenda vacua e priva di interesse.
«Conosci bene la strada?», domandai a Filofej.
«Come no? Solo che, cioè, non posso… come volete… perché così all’improvviso…».
Risultò che Ermolaj, nel prendere accordi con Filofej, gli aveva dichiarato, per convincerlo, che a lui, imbecille, lo avrebbero pagato… e basta!
Filofej, anche se era un imbecille secondo quanto aveva detto Ermolaj, non si accontentò di una semplice dichiarazione. Mi chiese cinquanta rubli in banconote, una cifra spropositata; io gli proposi dieci rubli, un prezzo basso.
Cominciammo a contrattare, Filofej dapprima fece resistenza, poi iniziò a cedere ma con lentezza.
Ermolaj, entrato un minutino, prese ad assicurarmi che “quell’imbecille” («evidentemente ci ha preso gusto alla parola!» – commentò Filofej a mezzavoce), «quell’imbecille non sa per niente far di conto», e al proposito mi ricordò che una ventina di anni addietro la locanda costruita da mia madre in un punto trafficato, all’incrocio di due strade maestre, era andata in rovina per il fatto che il vecchio servo preposto all’amministrazione non sapeva proprio contare i soldi e li valutava per la quantità, cioè, per esempio, dava un pezzo da venticinque copeche di argento contro sei monete di rame da cinque copeche e diceva pure un sacco di parolacce.
«Ehi tu, Filofej, sei proprio un Filofej!», lo canzonò infine Ermolaj e andandosene sbatté la porta arrabbiato.
Filofej non replicò nulla, come consapevole del fatto che chiamarsi Filofej non era poi del tutto conveniente e che un nome simile lo si poteva persino rinfacciare a una persona, anche se, in questo caso, era colpevole il pope che al battesimo non aveva fatto il suo dovere sino in fondo.
Alla fine, comunque, ci accordammo su venti rubli.
Andò a prendere i cavalli e dopo un’ora me ne portò addirittura cinque fra i quali scegliere.
I cavalli risultarono in ordine anche se avevano le criniere e le code arruffate e la pancia grossa e tirata come un tamburo.
Filofej era arrivato in compagnia di due dei suoi fratelli, completamente diversi da lui. Piccoli, occhi neri, naso affilato, davano proprio l’impressione di essere «in gamba», parlavano molto e in fretta, “borbottavano”, come disse Ermolaj, ma si sottomettevano al maggiore.
Tirarono fuori dalla tettoia il tarantas e trafficarono per un’ora e mezza con il carro e i cavalli; ora allentavano le tirelle di corda, ora le stringevano strette strette.
Entrambi i fratelli volevano assolutamente attaccare al timone il “leardo” in quanto «quello sì che poteva fare la discesa», ma Filofej decise: l’arruffato!
Così al timone fu attaccato quello arruffato.
Riempirono il tarantas di fieno, ficcarono sotto il sedile il collare del timoniere azzoppato, nel caso dovesse servire per il cavallo da comprare a Tula…
Filofej, che nel frattempo era riuscito a fare un salto a casa e a ritornare con una lunga palandrana bianca del padre, un alto cappello a cono e gli stivali unti, salì solennemente a cassetta.
Montai anch’io e guardai l’orologio: le dieci e un quarto.
Ermolaj non mi salutò neppure, era indaffarato a picchiare la sua Valetka.
Filofej tirò le briglie, gridò con voce fina fina:
«Su piccini!».
I suoi fratelli accorsero uno da una parte, uno dall’altra e frustarono i bilancini sotto la pancia.
Il tarantas si mosse, varcò il cancello e si immise nella strada.
L’arruffato cercò di tornare nella sua stalla, ma Filofej lo fece ragionare con alcuni colpi di frusta.
Dopo un po’ eravamo già usciti dal villaggio e procedevamo per una strada abbastanza regolare tra due file compatte di noccioli.
La notte era tranquilla, splendida, ideale per viaggiare.
Il vento ora stormiva fra i cespugli, cullando i rami, ora cessava del tutto; in cielo si intravedevano qua e là immobili nubi argentee; la luna era alta e illuminava chiaramente il circondario.
Mi distesi sul fieno e stavo già per addormentarmi… quando mi ricordai del “brutto punto” e mi risvegliai.
«Allora, Filofej? Ci vuole molto per il guado?».
«Fino al guado? Saranno otto verste».
«Otto verste», pensai. «Non arriveremo prima di un’ora. Per ora posso schiacciare un pisolino».
«Filofej, conosci bene la strada?», gli domandai di nuovo.
«Come no! Non è la prima volta che vado…».
Aggiunse qualche altra cosa, ma non lo ascoltavo più.
Dormivo.
II
Mi svegliai non perché mi fossi prefisso di destarmi esattamente dopo un’ora, come spesso accade, ma perché udii uno strano, anche se debole, gorgoglio proprio sotto il mio orecchio.
Sollevai la testa… Che stranezza era mai quella? Giacevo come prima nel tarantas, ma intorno al tarantas – e a mezzo aršin, non di più, dalla sua sponda – una distesa d’acqua illuminata dalla luna si frangeva e tremolava con increspature lievi e fitte.
Guardo avanti: a cassetta, con il capo abbassato e la spalla curva, sedeva come impietrito Filofej, e un po’ più in là, sull’acqua sciabordante, spuntavano la linea curva dell’arco delle stanghe, la testa e le groppe dei cavalli.
E tutto era così immobile, silenzioso come in un regno incantato, in un sogno, in un sogno fiabesco… Che storia era mai questa?
Guardo indietro da sotto il mantice del tarantas… Ci troviamo nel bel mezzo del fiume… a una trentina di passi dalla riva!
«Filofej!», esclamai io.
«Che c’è?», replicò quello.
«Come che c’è? Dove ci troviamo, di grazia?».
«Nel fiume».
«Lo vedo che siamo nel fiume. Ma stiamo anche per annegare. È così che passi il guado? Eh? Ma tu dormi, Filofej! Rispondimi allora!».
«Abbiamo sbagliato un pochino», disse il mio cocchiere. «L’abbiamo presa troppo da un lato e adesso ci tocca aspettare!».
«Come ci tocca aspettare! Che cosa dobbiamo aspettare?».
«Che l’arruffato qui si orienti: là dove si girerà lui, quella sarà la nostra direzione».
Mi drizzai sul fieno. La testa del timoniere era immobile sull’acqua. Al chiarore della luna, si vedeva solo che l’animale muoveva appena appena un orecchio ora indietro, ora avanti.
«Ma anche il tuo arruffato sta dormendo!».
«No», obiettò Filofej, «adesso sta annusando l’acqua».
Tutto tacque di nuovo, soltanto l’acqua sciabordava debolmente come prima. Mi impietrii anch’io. La luce della luna, la notte, il fiume e noi nel fiume…
«Cos’è questo rumore?», domandai a Filofej.
«Questo? Sono le anatre nel canneto… oppure i serpenti».
All’improvviso il timoniere scrollò la testa, rizzò le orecchie, sbuffò e cominciò a muoversi.
«Hi-hi-hi-hi!», gridò all’improvviso Filofej a squarciagola, si drizzò e agitò la frusta.
Il tarantas si mosse subito, si lanciò in avanti, di taglio rispetto alla corrente del fiume, e avanzò traballando e dondolando… Sulle prime mi sembrò che stesse affondando sempre più giù, ma dopo due o tre spinte e tuffi la distesa dell’acqua sembrò abbassarsi all’improvviso…
Si abbassava gradualmente, mentre il tarantas emergeva dall’acqua – ecco che si vedevano le ruote, le code dei cavalli – ed ecco che, sollevando spruzzi luminosi e abbondanti che a fasci di diamanti, no, non di diamanti, ma di zaffiri, si propagavano al riflesso opaco della luna, i cavalli ci trassero tutti insieme felicemente sulla riva sabbiosa e intrapresero la strada in salita, avanzando con le loro zampe lucide e bagnate.
«Ecco», mi venne in mente, «adesso Filofej dirà: “Visto che avevo ragione?”, o qualcosa del genere».
Ma quello non disse nulla. Pertanto neanche io ritenni il caso di rimproverarlo per la distrazione e, sdraiatomi nuovamente sul fieno, feci un nuovo tentativo di riaddormentarmi.
III
Ma non ci riuscii, non perché non mi fossi stancato a caccia, né perché l’agitazione mi avesse fatto passare il sonno, ma per la bellezza dei posti che stavamo attraversando.
Erano prati immensi, vasti, irrigui e erbosi con una miriade di radure, laghetti, fiumicelli, insenature, cinti da saliceti e giuncaie, luoghi autenticamente russi, amati dalla gente russa, simili a quelli in cui viaggiavano gli eroi delle nostre byliny antiche a caccia di cigni bianchi e anatre grigie.
La strada si svolgeva come un nastro gialliccio, i cavalli trottavano dolcemente – io non riuscivo a chiudere gli occhi, ammiravo! E tutto il panorama ci scorreva accanto illuminato dalla benevola luce della luna. Anche Filofej ne fu affascinato.
«Questi da noi si chiamano i prati di San Giorgio», mi disse.
«E dopo di questi vengono i prati Velikoknjažeskie, non ci sono altri prati pari a quelli in tutta la Russia… Com’è bello!».
Il timoniere sbuffò e trasalì…
«Che Dio sia con te!…», disse Filofej solennemente e a mezza voce.
«Com’è bello!», ripeté e sospirò, e poi si schiarì a lungo la voce.
«Tra un po’ cominceranno le falciature e qui ne ammasseranno a caterve di quel fieno! Nelle insenature ci sono molti pesci. Scardole grosse così!», soggiunse cantilenando.
«Insomma: qui non si dovrebbe morire».
All’improvviso alzò la mano.
«Ehi! Guardate lì! Su quel lago… è un airone quello? Ma che fa, pesca anche di notte? Macché! È un ramo, non un airone. Che abbaglio! La luna inganna».
Così procedevamo, procedevamo… I prati finirono, comparvero i boschetti, i campi arati; balenarono due o tre fuocherelli di un villaggetto, alla strada maestra mancavano solo cinque verste circa. Mi addormentai. Ancora una volta non mi svegliai spontaneamente: fu la voce di Filofej a destarmi.
«Padrone… ehi, padrone!»
Mi sollevai. Il tarantas si trovava in un punto pianeggiante proprio al centro della strada maestra; girato verso di me e con gli occhi spalancati (rimasi persino meravigliato perché non credevo che avesse gli occhi così grandi) Filofej sussurrò in tono significativo e misterioso:
«Cigolano!.. Cigolano!».
«Che stai dicendo?».
«Dico che cigolano delle ruote! Piegatevi e restate in ascolto. Sentite?».
Sporsi la testa fuori dal tarantas, trattenni il respiro e davvero sentii in un punto, lontano lontano, dietro di noi un cigolio debole e intermittente come di ruote in movimento.
«Sentite?», ripeté Filofej.
«Sì», risposi. «È una carrozza».
«Ma non sentite?… Ecco i sonagli… il fischio pure… Sentite? Toglietevi il berretto… sentirete meglio».
Non mi tolsi il berretto, ma tesi l’orecchio.
«Sì, può essere. Ma che cos’è?».
Filofej si voltò dalla parte dei cavalli.
«È un carro in viaggio… vuoto, con le ruote ferrate», rispose lui e prese le redini.
«Sono malviventi quelli che arrivano, padrone, qui nei dintorni di Tula, ne combinano delle belle…».
«Che sciocchezze! Come fai a dire con certezza che sono malviventi?».
«Ma è così. Con i sonagli… con il carro vuoto. Chi può essere?».
«E ci vuole ancora molto per arrivare a Tula?».
«Una quindicina di verste e qui intorno non abita nessuno».
«Allora vai più in fretta, non c’è tempo da perdere».
Filofej agitò il frustino e il tarantas si rimise in moto. Sebbene non credessi a Filofej, non riuscii lo stesso ad addormentarmi. E se avesse ragione lui? Una spiacevole sensazione mi turbò.
Mi misi a sedere (fino a quel momento ero stato coricato) e incominciai a guardarmi intorno. Mentre dormivo era calata una nebbiolina sottile, non sulla terra ma nel cielo, e la luna vi era sospesa come una macchia bianchiccia avvolta nel fumo.
Era tutto più offuscato e confuso, solo verso il basso si vedeva più nitidamente. Eravamo circondati da luoghi piatti, tetri: campi e ancora campi, qui e là delle macchie di arbusti, burroni e ancora campi e soprattutto maggesi con erbacce rade.
Tutto brullo… morto! Neanche l’urlo di una quaglia si sentiva. Ci eravamo rimessi in viaggio da mezz’ora. Filofej di tanto in tanto agitava la frusta e schioccava le labbra, ma né lui né io dicevamo una parola. Eravamo giunti su un colle. Filofej fermò i cavalli e disse in fretta:
«Cigolano… cigolano-o, padrone!».
Io mi sporsi nuovamente dal tarantas, ma sarei anche potuto rimanere sotto la copertura del mantice tanto era nitido quel suono, sebbene fosse ancora lontano.
Giunsero alle mie orecchie il cigolio delle ruote di una carrozza, un fischio umano, lo scampanellio di sonagli e persino uno scalpitio di cavalli; sentii addirittura ridere e cantare. Il vento, è vero, era a favore, ma non c’era dubbio che gli sconosciuti viaggiatori si fossero avvicinati di un’intera versta, forse anche di due.
Ci scambiammo uno sguardo con Filofej, lui si calcò il berretto sulla fronte, si chinò sulle briglie e si mise a frustare i cavalli. Quelli partirono al galoppo, ma non ressero a lungo e passarono al trotto.
Filofej continuava a frustarli. Bisognava pur guadagnare terreno! Non riuscivo a spiegarmi come mai, mentre prima non avevo condiviso i sospetti di Filofej, questa volta all’improvviso mi fossi convinto che fossero proprio dei malviventi a seguirci. Avevo sentito gli stessi rumori di prima: gli stessi sonagli, lo stesso cigolio di una carrozza senza carico, gli stessi fischi, lo stesso confuso baccano.
Eppure adesso non avevo più dubbi: Filofej aveva ragione! Passarono ancora una ventina di minuti… E verso la fine di quel lasso di tempo, insieme al rumore e al fracasso della nostra carrozza sentivamo quell’altro rumore, quell’altro fracasso…
«Fermati, Filofej», dissi, «tanto è lo stesso!».
Filofej frenò impaurito. I cavalli si fermarono di botto quasi rallegrati dall’occasione di riposarsi. Misericordia!
I sonagli scampanellavano proprio alle nostre spalle, il carro rimbombava, le persone fischiavano, gridavano, cantavano, i cavalli sbuffavano e scalpitavano… Ci avevano raggiunti!
«Che di-sgra-zia!», sillabò a mezza voce Filofej e, schioccando le labbra perplesso, incominciò a incitare i cavalli.
Ma in quello stesso istante si udì come uno schianto, un ruglio, un fragore e un grosso carro malandato, tirato da tre cavalli sfiancati, ci sorpassò bruscamente come un turbine, sfrecciò davanti a noi e si mise al passo sbarrandoci la strada.
«Proprio alla maniera dei briganti», sussurrò Filofej.
Devo confessare che sentii un tonfo al cuore… Mi sforzai di distinguere qualcosa nella semioscurità della luce lunare densa di fumi. Nel carro davanti a noi ci saranno stati una mezza dozzina di uomini, alcuni seduti altri sdraiati, in camicia, con i caffettani sbottonati, due di loro erano senza berretto; gambe robuste calzate da stivali si dimenavano sporgendo dalla sponda, braccia si alzavano e si abbassavano a casaccio, corpi sobbalzavano…
La faccenda era chiara: erano ubriachi. Alcuni sbraitavano, così, senza motivo, uno fischiava con un suono penetrante e sonoro, un altro bestemmiava, a cassetta sedeva una specie di gigante in pellicciotto che guidava il carro.
Procedevano al passo, senza prestare attenzione a noi. Che fare? Li seguimmo anche noi al passo… giocoforza. Continuammo così per un quarto di versta.
L’attesa era tormentosa… Salvarci, difenderci… neanche a pensarci! Loro erano in sei e io non avevo nemmeno un bastone! Fare dietro-front? Ci avrebbero raggiunto subito. Mi sovvennero i versi di Žukovskij (quando parla dell’assassinio del maresciallo Kamenskij):
La scure abietta del masnadiere… Oppure ti soffocano con una sudicia corda… e giù in un fosso… e là rantoli e ti dibatti come una lepre al laccio..
Ah, che brutta situazione! Nel frattempo quelli continuavano ad andare al passo e non prestavano attenzione a noi.
«Filofej», sussurrai, «prova un po’ ad andare sulla destra, cerca di sorpassarli».
Filofej ci provò, si mise un po’ a destra… e pure quelli si misero subito a destra… era impossibile passare. Filofej fece un altro tentativo: si spostò a sinistra… Ma anche quella volta non gli permisero di superare il carro. Scoppiarono persino a ridere. Quindi non volevano farci passare.
«Sono proprio dei briganti», mi sussurrò Filofej sopra la spalla.
«Ma che aspettano?», domandai sussurrando anch’io.
«Lì, più avanti, in quell’avvallamento c’è un ponticello che passa sopra un fiumiciattolo… Lì ci fermeranno! Fanno sempre così… accanto ai ponti. La nostra situazione è chiara!», aggiunse sospirando, «sarà difficile che ci lascino andare vivi, quello che conta per loro è farla finita. Mi dispiace solo che i miei cavalli andranno perduti e non resteranno ai miei fratelli».
Avrei dovuto meravigliarmi che Filofej in un momento simile si preoccupasse dei suoi cavalli, ma devo dire che non avevo proprio testa per lui…
«E se ci ammazzano?», tornavo a ripetermi mentalmente.
«E perché? Darò loro tutto quello che ho».
E il ponticello si faceva sempre più vicino, più visibile. All’improvviso si udì un brusco urlo di incitamento, i cavalli del carro davanti a noi si impennarono, partirono al galoppo e, raggiunto il ponticello, si fermarono di botto, vicino al ciglio della strada. Mi sentii mancare.
«Oh, fratello Filofej», dissi io, «stiamo per morire. Perdonami se ti ho condotto alla morte».
«Che colpa hai tu, padrone? Non si scansa il proprio destino!
Arruffato, cavalluccio mio fedele», Filofej si rivolse al timoniere,
«vai avanti fratello! Rendimi questo ultimo servizio!
Tutti insieme… Che Dio ci benedica!».
E mandò al trotto i suoi cavalli. Ci avvicinavamo al ponticello, a quel carro immobile, minaccioso…
che ora se ne stava silenzioso, quasi a farlo apposta. Così si calma il luccio, l’avvoltoio, ogni predatore all’avvicinarsi della preda. Ecco che raggiungemmo il carro… ad un tratto il gigante in pellicciotto balzò giù dal carro e venne dritto verso di noi! Il gigante non disse nulla a Filofej, ma questi tirò da solo le briglie… Il tarantas si fermò.
Il gigante poggiò entrambi le mani sullo sportello e, chinata in avanti la testa ricciuta e sorridendo, disse con voce bassa, regolare e con una parlata da operaio di fabbrica:
«Egregio signore, siamo di ritorno da un rispettabile banchetto, da una festa di nozze, cioè abbiamo fatto sposare uno dei nostri giovanotti, l’abbiamo proprio messo a letto, i nostri ragazzi sono tutti giovani, tutti spavaldi, abbiamo bevuto molto e non abbiamo di che farci passare la sbornia, non sareste così buono da darci qualche soldino, anche piccolo piccolo, perché ciascuno di noi si beva il suo mezzo boccale? Berremmo alla vostra salute, ricorderemmo vostra eccellenza, ma se non sarete buono con noi, vi preghiamo di non prenderla a male poi!».
«Questa cos’è?», pensai. «Una presa in giro?… Uno scherzo?».
Il gigante continuava a stare a capo chino. In quell’istante la luna uscì dalla nebbia e gli illuminò il volto. Quel volto sorrideva con gli occhi e con le labbra.
E non aveva affatto un’espressione minacciosa… ma era come un po’ guardingo… e i denti erano così bianchi e grandi…
«Io volentieri… prendete…», dissi io in fretta e, estratto il borsellino dalla tasca, ne presi due rubli d’argento — a quel tempo in Russia circolavano ancora i soldi d’argento.
«Ecco, spero che sia sufficiente».
«Molto obbligati!», gridò il gigante alla maniera militare, e le sue dita robuste mi carpirono in un batter d’occhio non tutto il borsellino, ma soltanto quei due rubli.
«Molto obbligati!», scrollò i capelli e corse alla carrozza.
«Ragazzi!», gridò, «quel signore in viaggio ci ha donato due rubli d’argento!».
Si misero a strepitare tutti, insieme… Il gigante balzò a cassetta…
«Buon proseguimento!».
E via di gran carriera. I cavalli partirono al galoppo, il carro rombò in salita, balenò ancora una volta sulla linea scura che separava la terra dal cielo, affondò e scomparve. Dopo un po’ non si udivano né il cigolio delle ruote, né lo scampanellio dei sonagli. Si fece un silenzio di morte.
IV
Filofej e io non ci riprendemmo subito.
«Accidenti che burlone!», disse lui infine e, levatosi il berretto, iniziò a segnarsi.
«Proprio un burlone», soggiunse e si rivolse verso di me tutto contento.
«Ma deve essere un brav’uomo, proprio così. Oh-oh-oh, piccini! Giratevi! Siete sani e salvi! Siamo tutti sani e salvi! Eppure non ci faceva passare, era lui che guidava i cavalli. Ma che burlone di ragazzo. Oh, oh, oh! Andate con Dio!».
Tacevo, ma cominciavo a sentirmi meglio.
«Siamo sani e salvi!», ripetevo fra me e me e mi coricai sul fieno.
«Ce la siamo cavata con poco!».
Provai persino imbarazzo ad aver ricordato quel verso di Žukovskij.
All’improvviso mi venne un’idea.
«Filofej!».
«Che volete?».
«Sei sposato?».
«Sì, sono sposato».
«E hai figli?».
«Ho figli».
«Come mai non hai pensato a loro? Temevi per i cavalli e non per tua moglie e per i figli?».
«E che cosa dovevo temere? Mica cascavano loro nelle mani dei ladri. Ma io li penso sempre, anche adesso… ecco».
Filofej tacque per un po’.
«Forse… proprio grazie a loro il Signore ha avuto pietà di noi».
«Ma quelli non erano briganti, vero?».
«Come facciamo a saperlo? Mica si può entrare nell’anima di un altro. Nell’anima altrui è buio pesto. Mentre con Dio si sta sempre meglio. No… la mia famiglia è sempre… Oh-oh-oh, piccini, andate con Dio!».
Era quasi l’alba quando giungemmo dalle parti di Tula. Giacevo in un dormiveglia…
«Padrone», mi disse a un tratto Filofej, «guardate lì, sono all’osteria… è il loro carro».
Sollevai la testa… erano proprio loro: era il loro carro, i loro cavalli. Sulla soglia del locale s’affacciò ad un tratto il gigante in pellicciotto di nostra conoscenza.
«Signore!», esclamò agitando il berretto, «stiamo bevendo i vostri soldini! Che c’è cocchiere?», soggiunse indicando con la testa Filofej.
«Hai avuto una bella paura, eh?».
«È proprio un tipo allegro», osservò Filofej dopo essersi allontanato di una quarantina di metri dall’osteria.
Finalmente arrivammo a Tula, comprai i pallini e già che eravamo lì anche tè e vino, presi persino un cavallo dal sensale. A mezzogiorno ripartimmo. Passando per il punto dove avevamo sentito per la prima volta il cigolio del carro dietro di noi, Filofej — che dopo aver alzato il gomito a Tula era diventato estremamente loquace, mi raccontava persino delle favole — quando passammo per quel punto, scoppiò improvvisamente a ridere.
«Padrone, ricordi che ti ripetevo: cigolano… cigolano… cigolano?».
Fece alcune volte il gesto di dare una sventola… La parola “cigolano” adesso gli sembrava molto divertente. Quella sera stessa tornammo al villaggio. Raccontai a Ermolaj quello che ci era accaduto. Dal momento che egli era sobrio, non dimostrò alcuna comprensione e si limitò a commentare con un «mah», credo che neanche lui sapesse se in segno di consenso o di rimprovero.
Ma un paio di giorni più tardi mi comunicò con soddisfazione che quella stessa notte in cui eravamo partiti per Tula, su quella stessa strada avevano derubato e ucciso un mercante. Sulle prime non credetti a quella notizia, ma poi dovetti farlo, me la confermò il commissario che era accorso lì per le indagini.
Era da quella “festa di nozze” che tornava la nostra allegra combriccola? Era quello il “giovanotto” che avevano messo a letto, come aveva detto quel gigante-burlone? Mi trattenni nel villaggio di Filofej ancora cinque giorni. Ogni volta che mi capitava di incontrarlo gli dicevo:
«Cigolano, eh?».
«Un tipo allegro!», mi rispondeva ogni volta e lui stesso scoppiava a ridere.
