I Rintocchi Della Campana Nuziale, di Nathaniel Hawthorne

Ho sempre guardato con particolare interesse una certa chiesa nella città di New York, a causa di un matrimonio lì celebrato in singolari circostanze durante l’infanzia di mia nonna, una veneranda signora che assisté casualmente all’avvenimento, facendone in seguito uno dei suoi racconti preferiti.

Non sono abbastanza esperto di antichità per sapere se l’edificio che sorge tuttora nello stesso luogo sia identico a quello di cui lei parlava, né sarebbe importante correggere eventualmente un mio comprensibile errore andando a leggere la data della sua costruzione apposta su una targa sopra il portale.

È una chiesa imponente, circondata da un recinto di verdissimo prato in cui sorgono urne, pilastri, obelischi e altre monumentali costruzioni di marmo: testimonianze di affetti privati o più imponenti omaggi alla polvere della storia. A un luogo come questo, nonostante il fermento della città che scorre sotto il suo campanile, si è ben disposti ad attribuire qualche interesse di leggenda.

Questo matrimonio potrebbe essere considerato il coronamento di un precedente fidanzamento, anche se nel frattempo la sposa era già convolata due volte a nozze e lo sposo aveva trascorso quarant’anni di celibato.

All’età di sessantacinque anni, il signor Ellenwood era un uomo schivo, ma non del tutto misantropo; egoista come tutti coloro che rimuginano troppo sui propri sentimenti, eppure capace di manifestare, in rare occasioni, una vena di generosità.

Uno studioso per tutta la sua vita, anche se piuttosto indolente, perché i suoi studi non avevano un fine particolare, né per pubblica utilità né per personale ambizione. Un gentiluomo di buona famiglia e un po’ schizzinoso, anche se talvolta si concedeva prolungate pause dalle convenzioni della società.

In verità, il suo carattere presentava molte contraddizioni, e anche se egli si ritraeva con morbosa sensibilità dall’attenzione pubblica, era suo destino diventare così spesso argomento del giornale per le stravaganze del suo comportamento, che alcuni cercavano nel suo albero genealogico qualche ramo ereditario di follia.

Ma non ce n’era necessità, perché i suoi capricci avevano origine da una mente che mancava del sostegno di un solido proposito e da sentimenti che si alimentavano di se stessi in mancanza di altro nutrimento. Se era folle, ciò era la conseguenza, e non la causa, di una vita insulsa e priva di scopo.

La vedova era l’esatto opposto del suo terzo marito in ogni aspetto, tranne l’età, come si può ben immaginare.

Costretta a rompere il suo primo fidanzamento, si era unita a un uomo col doppio dei suoi anni, del quale era stata sposa esemplare e alla cui morte era entrata in possesso di una cospicua fortuna.

Un gentiluomo del Sud, considerato più giovane di lei, era succeduto alla sua mano e l’aveva portata con sé a Charleston, dove, dopo molti anni difficili, ella si era trovata di nuovo vedova.

Sarebbe stato strano se qualche delicatezza di sentimenti fosse rimasta viva dopo un’esistenza come quella della signora Dabney, perché non poteva che essere calpestata e uccisa dalla sua prima delusione, dal freddo rapporto di dovere del suo primo matrimonio, dal turbamento dei suoi innati principi conseguente alle sue seconde nozze con un grossolano uomo del Sud, che l’aveva inevitabilmente indotta ad associare la sua morte con la propria felicità.

Insomma, era quel tipo di donna accorta ma non amabile, abbastanza razionale per sopportare i tormenti del cuore con filosofia, per rinunciare a tutto ciò che poteva darle felicità e per approfittare di ciò che le rimaneva.

Pur essendo così accorta, la vedova si rendeva forse un po’ più simpatica per l’unica debolezza che la rendeva ridicola: non avendo figli, non poteva conservare la sua bellezza per la loro interposta persona, e quindi si rifiutava di diventare brutta e vecchia, e combatteva col tempo aggrappandosi alle proprie grazie nonostante lui, finché il furtivo vegliardo sembrava aver abbandonato le sue spoglie, non ritenendo che valesse la pena prendersele.

Il prossimo matrimonio di questa donna di mondo con un uomo così poco mondano come il signor Ellenwood fu annunciato poco dopo il ritorno della signora Dabney nella sua città natale.

Gli osservatori superficiali e quelli più profondi sembravano convenire nel ritenere che la signora in questione doveva aver svolto una parte non passiva nel combinare il matrimonio, essendoci considerazioni di opportunità che ella aveva probabilmente valutato molto meglio del signor Ellenwood, ed essendoci anche quella parvenza di romantico sentimentalismo nella tarda unione di questi due ex innamorati, che talvolta può ingannare una donna quando ha smarrito i suoi genuini sentimenti a causa delle traversie della vita.

Ciò che stupiva era il fatto che il signor Ellenwood, così privo di buonsenso pratico e così tormentato dalla sua coscienza del ridicolo, potesse esser stato indotto a compiere questo passo a un tempo così accorto e così esilarante.

Ma mentre la gente continuava a parlarne, arrivò infine il giorno delle nozze. La cerimonia doveva essere celebrata secondo il rito episcopale e pubblicamente in chiesa, con tanta pompa da richiamare numerosi spettatori, che erano seduti nelle prime file delle gallerie, sui banchi vicini all’altare e lungo la navata centrale.

Era stato convenuto, o era forse consuetudine a quel tempo, che i due cortei nuziali giungessero separatamente in chiesa, ma per qualche contrattempo lo sposo fu un po’ meno puntuale della vedova e dei suoi accompagnatori.

Dopo l’arrivo di questi ultimi, e dopo questo tedioso ma necessario preambolo, si può dire che ha inizio l’azione del nostro racconto.

Si udì il cigolio delle ruote di alcune antiquate carrozze, poi gentiluomini e dame che componevano il corteo della sposa entrarono in chiesa, producendo l’immediato e lieto effetto di un raggio di sole. Tutto il gruppo, con l’eccezione della protagonista, era composto da giovani festosi, e mentre avanzavano per la navata centrale, tra i banchi e i pilastri che sembravano illuminarsi da una parte e dall’altra, i loro passi risuonavano rumorosamente, come se avessero scambiato la chiesa per una sala da ballo e si accingessero a danzare mano nella mano intorno all’altare.

Era uno spettacolo così spumeggiante che pochi si accorsero di un singolare evento che aveva segnato il loro ingresso: nel momento in cui il piede della sposa aveva varcato la soglia, la campana aveva suonato pesantemente nella torre sopra di lei, facendo udire il suo cupo rintocco. Le vibrazioni si erano appena spente, quando risuonarono di nuovo con prolungata solennità, mentre la sposa procedeva all’interno della chiesa.

«Buon Dio, che cattivo auspicio!» sussurrò una giovane al suo fidanzato.

«Sul mio onore» replicò il giovane, «io credo che la campana abbia suonato di propria iniziativa. Che cosa hanno a che vedere quei rintocchi con una cerimonia di nozze? Se fossi tu, mia cara Julia, ad avvicinarti all’altare, la campana lancerebbe il suo suono più festoso, ma per lei sono soltanto rintocchi funebri.»

La sposa e il suo seguito erano troppo distratti al loro ingresso per udire il primo malaugurante rintocco, o quanto meno per riflettere su questo singolare benvenuto all’altare, e perciò proseguirono la marcia con immutata allegria.

Gli sfarzosi abbigliamenti del tempo — le giacche di velluto cremisi, i cappellini con i nastri dorati, le gonne con la crinolina, le sete, i broccati e i tessuti ricamati, le fibbie, i bastoni e gli spadini — tutti ostentati a vantaggio di queste persone avvezze a tanta eleganza, facevano apparire il corteo più simile a un quadro vivacemente colorato che a una vera cerimonia.

Ma per quale gusto perverso l’artista aveva rappresentato la protagonista così avvizzita e cadente, pur adornandola dei più splendidi abiti, come se un’adorabile fanciulla fosse di colpo invecchiata, per impartire così una lezione alle belle donne intorno a lei?

Lo scintillante corteo proseguiva comunque il suo cammino e aveva percorso un terzo della navata, quando un altro rintocco della campana sembrò celare una fitta oscurità nella chiesa, avvolgendo il lieto corteo come in una nebbia, dalla quale riemerse poi ancora scintillante.

Questa volta la sposa e i suoi accompagnatori trasalirono, si fermarono e si strinsero vicini l’un l’altro, mentre qualche dama lanciava un gridolino e gli uomini mormoravano confusamente tra loro. Tutti vacillavano avanti e indietro, così che potevano essere fantasiosamente paragonati a uno splendido mazzo di fiori improvvisamente investito da una folata di vento, che minacciava di spogliare dei suoi petali una vecchia rosa appassita sullo stesso stelo con due freschi boccioli: questa era l’immagine che offriva la vedova tra le sue giovani e avvenenti damigelle.

Era tuttavia ammirevole per la sua forza d’animo: dopo aver trasalito con irrefrenabile tremore, come se il cupo rintocco della campana fosse piombato sul cuore, la vedova si era poi ripresa, mentre i suoi accompagnatori erano ancora turbati. Aveva preso la testa del corteo e aveva proseguito con sicurezza il cammino lungo la navata.

Ma la campana continuava a rintoccare e vibrare, con la stessa dolente regolarità di quando un defunto viene accompagnato alla tomba.

«I miei giovani amici hanno i nervi alquanto scossi» osservò poi la vedova, sorridendo al pastore davanti all’altare. «Ma tanti matrimoni sono stati annunciati con lieti rintocchi di campane per poi rivelarsi infelici, che spero in miglior fortuna sotto questi diversi auspici.»

«Signora» rispose sconcertato il pastore, «questo strano evento mi richiama alla mente uno dei sermoni nuziali del celebre vescovo Taylor, nel quale egli mescolava tanti pensieri di morte e di future calamità che, per dirla nel suo stile colorito, sembrava addobbare di nero la camera nuziale e ritagliare l’abito della sposa da un drappo funebre.

Ma era consuetudine anche di altre popolazioni infondere un po’ di tristezza nelle loro cerimonie nuziali, così da ricordare la morte mentre si stringe il vincolo che è il più importante della vita. E pertanto possiamo trarre una triste ma utile lezione da questi rintocchi funebri.»

Ma anche se aveva dato al suo sermone un significato più profondo, il pastore non mancò tuttavia di inviare un suo assistente a indagare su quei rintocchi misteriosi e farli cessare, per quanto fossero tristemente appropriati a quel matrimonio.

Trascorse un po’ di tempo, durante il quale il silenzio fu interrotto soltanto da qualche sussurro e da risatine soffocate scambiate tra gli accompagnatori della sposa e gli astanti, che dopo il primo momento di turbamento erano ora disposti a trovare un maligno motivo di divertimento nell’episodio — perché i giovani hanno minor compassione per le follie degli anziani di quanto gli anziani ne abbiano per quelle della gioventù.

Per un attimo la vedova rivolse lo sguardo verso una finestra della chiesa, come per cercare la consunta lastra di marmo che aveva dedicato al suo primo marito. Poi abbassò le palpebre sugli occhi spenti e i suoi pensieri furono attratti irresistibilmente verso un’altra tomba. Due uomini sepolti — l’uno con voce che giungeva al suo orecchio, l’altro con un grido lontano — la chiamavano a giacere accanto a loro.

Forse, in un momento di sincerità, pensava a come sarebbe stato più lieto il suo destino se, dopo molti anni di felicità, la campana suonasse ora per il suo funerale e lei fosse accompagnata alla tomba dal suo primo amore, divenuto da molto tempo suo marito. Ma perché era ritornata a lui solo quando i loro freddi cuori si ritraevano l’uno dall’altro?

Intanto, la campana a morto continuava a rintoccare così lugubre nell’aria che la stessa luce del sole sembrava offuscarsi. E una voce, divulgata da chi era più vicino alle finestre, si diffuse poi per la chiesa: un carro funebre, seguito da parecchie carrozze, stava avanzando lentamente nella strada per portare un defunto al cimitero, mentre la sposa attendeva un vivente all’altare.

Subito dopo si udirono alla porta i passi dello sposo e dei suoi amici. La vedova gettò allora lo sguardo lungo la navata e strinse il braccio di una delle damigelle con la sua mano ossuta, con tanta involontaria forza che la bella ragazza tremò.

«Mi ha spaventata, signora!» esclamò. «In nome di Dio, che cosa accade?»

«Niente, mia cara, niente» rispose la vedova, poi le sussurrò all’orecchio: «È una sciocca fantasia di cui non riesco a liberarmi. Mi aspetto di veder entrare in chiesa il mio sposo accompagnato dai miei due precedenti mariti come testimoni!»

«Guardi!» esclamò allora la damigella. «Che cos’è… un funerale?»

Mentre parlava, una lugubre processione entrò lentamente in chiesa. Venivano per primi un vecchio e una vecchia, come i più stretti congiunti a un funerale, vestiti da capo a piedi in un color nero che faceva risaltare i loro pallidi volti e i candidi capelli. L’uomo, appoggiato a un bastone, sosteneva la decrepita figura della vecchia col suo braccio inerte.

Dietro a loro comparve un’altra coppia, e poi un’altra, altrettanto vecchie, nere e luttuose come la prima. Quando furono più vicini, la vedova riconobbe in ogni volto i tratti di suoi amici d’un tempo ormai dimenticati, e ritornati come dalle loro tombe per avvertirla di preparare un sudario — col proposito, altrettanto deprimente, di mostrarle le loro rughe e infermità, e chiedere la sua compagnia come segno del suo stesso decadimento.

Per molte allegre serate aveva danzato con loro in gioventù, e ora, in quell’età senza gioia, si aspettava che qualche avvizzito compagno chiedesse la sua mano e che si unissero tutti in una macabra danza ai rintocchi della campana a morto.

Mentre questi vecchi dolenti passavano lungo la navata, si vedeva che un brivido scorreva da un banco all’altro tra gli astanti impauriti, come se qualcosa, fin’allora nascosto da quelle figure, apparisse ora alla vista. Molti distolsero lo sguardo, altri rimasero con espressione impietrita, una ragazza diede una risatina isterica e poi svenne col riso ancora sulle labbra.

Mentre la spettrale processione si avvicinava all’altare, ogni coppia si separava lentamente, finché in mezzo a loro comparve la figura che era stata degnamente introdotta con questa lugubre pompa, accompagnata dalla campana a morto e dal corteo funebre: era lo sposo, vestito nel suo sudario.

Nessun abbigliamento poteva essere più adatto al suo cadaverico aspetto: gli occhi avevano il bagliore di una lampada sepolcrale, tutto il resto del corpo era irrigidito nella severa compostezza che i vecchi mostrano nella bara. Il cadavere stava immobile, tuttavia si rivolse alla vedova con una voce che sembrava confondersi coi rintocchi della campana, che cadevano pesantemente nell’aria mentre lui parlava.

«Vieni, mia sposa!» le dissero quelle labbra esangui. «Il carro funebre è pronto, il necroforo ci sta attendendo sulla porta del cimitero. Sposiamoci, e poi andiamo alle nostre bare!»

Come descrivere l’orrore della vedova, che le conferì l’espressione glaciale della sposa di un morto? I suoi giovani amici si fecero da parte, tremando alla vista del corteo funebre, dello sposo coperto dal sudario e della sposa: tutta la scena esprimeva, con una vivida immagine, la vana battaglia delle dorate vanità del mondo a confronto con le infermità e le sofferenze della vecchiaia e della morte.

L’inorridito silenzio fu infine rotto dalla voce del pastore.

«Signor Ellenwood» disse in tono pacato ma anche imperioso, «lei non sta bene, la sua mente è stata sconvolta dalle insolite circostanze in cui si trova. La cerimonia dev’essere rimandata: mi permetta, come suo vecchio amico, di invitarla a ritornare a casa.»

«A casa, sì — ma non senza la mia sposa» rispose il vecchio con la stessa voce cavernosa. «Voi pensate che sia una burla, o forse follia. Se avessi vestito la mia vecchia e curva figura con abiti scarlatti e ricamati, se avessi forzato le mie labbra avvizzite a sorridere nonostante il cuore ormai spento, questa sarebbe stata una burla o una follia. Ma ora giudichino i vecchi e i giovani: chi di noi è venuto qui senza gli abiti nuziali, lo sposo o la sposa?»

Detto ciò, fece un malfermo passo avanti e si fermò accanto alla sposa, mettendo a confronto la drammatica semplicità del suo sudario con lo sfarzo scintillante degli abiti con cui ella s’era abbigliata per questo infelice avvenimento. Nessuno che li guardasse poteva negare la terribile forza della lezione che la mente sconvolta del vecchio aveva voluto impartire.

«Crudele!» gemette sgomenta la sposa.

«Sì, crudele!» ripeté lui; poi la sua cadaverica compostezza lasciò posto a uno sfogo d’amarezza. «Giudichi il cielo chi di noi è stato crudele con l’altro. In gioventù mi hai privato della felicità, delle speranze, di ogni scopo; hai privato la mia vita di ogni sostanza e l’hai trasformata in un sogno, senza nemmeno la realtà sufficiente per piangerne, lasciando soltanto un’opprimente tristezza attraverso la quale ho camminato stancamente, senza curarmi di nulla. Ma dopo quarant’anni, quando ho costruito la mia tomba, non volendo rinunciare al pensiero di riposarti — e non dopo quella vita che un tempo sognavamo — allora tu mi hai chiamato all’altare, e al tuo richiamo io sono qui. Ma altri mariti hanno goduto della tua gioventù, della tua bellezza, del calore del tuo cuore, di tutto ciò che può essere considerato la tua vita.

«Che cosa mi è rimasto, se non la tua decadenza e la morte?» «E così ho invitato questi amici al funerale, ho chiesto i solenni rintocchi funebri del sagrestano, e sono venuto qui nel mio sudario per sposarti come in una funzione funebre, così che possiamo congiungere le nostre mani davanti all’ingresso del sepolcro ed entrarvi insieme.»

Non era follia, non era nemmeno l’ebbrezza di una forte emozione cui il suo cuore non era avvezzo, quella che ora si impadronì della sposa. La severa lezione di quel giorno aveva prodotto il suo effetto, e il suo spirito mondano era scomparso. Prese allora la mano dello sposo.

«Sì!» esclamò. «Sposiamoci, anche davanti alla soglia del sepolcro! La mia vita se n’è andata in vacua vanità, ma al suo termine è rimasto almeno un sentimento sincero, che ha fatto di me ciò che ero in gioventù, che mi rende degna di te. Non abbiamo più tempo, tutti e due: sposiamoci ora per l’eternità!»

Con un lungo sguardo profondo lo sposo la guardò negli occhi, mentre le lacrime bagnavano i suoi. Che strano quell’affiorare di sentimenti così umani dal gelido petto di un cadavere! Poi si asciugò le lacrime col sudario.

«Amore della mia gioventù», le disse, «sono stato un folle. La disperazione di tutta la mia vita è riaffiorata d’un tratto e mi ha fatto impazzire. Perdonami, e sarai perdonata. Sì, è ormai sera per noi, e non abbiamo realizzato nessuno dei nostri sogni mattutini di felicità. Ma ora uniamo le nostre mani davanti all’altare, come innamorati che circostanze avverse hanno separato per tutta la vita, ma che si incontrano di nuovo mentre stanno per lasciarla, e scoprono che il loro amore terreno si è trasformato in qualcosa di sacro come la religione. E che cos’è il tempo per coloro che sono sposati per l’eternità?»

Tra le lacrime di molti e un tumulto di sentimenti nelle persone più sensibili, fu così celebrata l’unione tra due anime immortali. Il corteo dei vecchi dolenti, lo sposo canuto nel suo sudario, il pallore della sposa sfiorita e i rintocchi della campana a morto che sovrastava con la sua voce profonda le parole del rito nuziale — tutto ciò segnò il funerale di quelle speranze terrene.

Ma mentre proseguiva la cerimonia, l’organo, come commosso da quella scena impressionante, innalzò un inno che si mescolò dapprima con i lugubri rintocchi e poi si alzò con più elevate note, finché l’anima si chinò a guardare le sue pene. E quando la triste cerimonia fu terminata, e una gelida mano nell’altra gli sposi dell’eternità si ritirarono, le solenni note trionfali dell’organo sommersero i lugubri rintocchi della campana nuziale.