Meditazione IV

Quando torno in Sicilia, e dispongo di almeno una mattinata libera da altre incombenze, non rinuncio al piacere della caccia.

Prediligo i giorni feriali, dal primo mattino sino all’ora di pranzo, perché a un certo punto le prede vengono ricondotte in gabbia per essere liberate soltanto la mattina seguente. Talvolta mi lascio persuadere ad andare di domenica, ma un senso d’uggia mi invade non appena scorgo, già in lontananza, più cacciatori che selvaggina. Ho dovuto riconoscere che la caccia domenicale non fa per me, benché sia innegabile che alcuni fra i miei trofei migliori siano stati raccolti proprio in tali occasioni.

Questa meritoria occupazione, per come la intendo io, rientra pienamente nella lasciva e sciocca definizione di hobby. Dalla preparazione all’esecuzione, tutto si risolve in un rituale atavico, fatto di aspettative che non riesco a dominare e di accorgimenti che posso soltanto affinare, di volta in volta.

Anzitutto, occorre stabilire in quale ordine perlustrare le zone più popolose. Nella mia Catania, i luoghi di caccia più rinomati si trovano tutti a breve distanza l’uno dall’altro, quasi adiacenti, tanto che se ne può tralasciare uno all’andata per ritrovarlo sulla via del ritorno, quando ormai non restano che pochi proiettili in bisaccia.

La selva più folta è quella della Fera ‘ô Luni, che significa fiera del lunedì (sebbene ormai si tenga ogni giorno), ma che forse trae origine dal Foro Lunaris.

Pur consapevole che la fiera intesa come mercato discenda dal latino feria, il giorno di festa, mentre la fiera come belva provenga invece da fera, ho sempre trovato in tale assonanza semantica una sorta di conferma a questa mia scialba meditazione di un lunedì mattina (guarda caso, ‘ô Luni) trascorso lontano dalla Sicilia.

Quando sostengo che vado a caccia, infatti, intendo dire che mi reco alla fiera di Catania per acquistare qualche libro. La caccia grossa la distinguo da quella ordinaria quando il bottino raggiunge almeno la dozzina di volumi, ben distribuiti in due buste di plastica. La caccia selvaggia, invece, potremmo intenderla come l’operazione di recupero di libri ridotti quasi a un impasto fetido di carta infracidita; i miei fagiani e le mie beccacce, insomma, che necessitano di una breve quarantena prima di trovare posto in libreria.

Se rischio di tornare a casa a mani vuote, mi coglie lo stesso sentimento che, immagino, pervada il cacciatore deluso quando si presenta ai familiari: una sordida urgenza di redimere il proprio fallimento recando con sé un cibo pronto e succulento, o invitando tutti a pranzo. In tali rare circostanze, non mi nego talvolta il conforto di entrare in una libreria dal marchio industriale, pur di sopportare meglio la disfatta.

Tanto vasta e multiforme è però la selvaggina della fiera, che con un poco d’impegno qualcosa sempre si porta a casa. E tali sono i prezzi, che si può ben correre il rischio di un acquisto sbagliato.

A questo proposito, da ragazzino misuravo il valore del denaro prendendo come unità di riferimento un libro della fiera. Sapere che un videogioco, una maglia o un profumo costassero trenta volte un libro della fiera urtava il mio buonsenso. E quando volevo evitare una spesa che avrei comunque potuto sostenere, acquistavo invece un esemplare del mio metro di giudizio.

Oggi, superata la soglia dei trent’anni, la mia unità di misura restano i libri della fiera: precisamente, i BUR dalla copertina giallo paglierino, così morbidi e cedevoli da potersi piegare a forma di esse. I BUR dello Stello di Alfred de Vigny, dei racconti di Čechov e Twain, delle commedie di Schiller, della Vita di uno Strano Signore di Azorín, delle Memorie Politiche di Orsini e di molti altri che occupano un posto d’onore in ogni mia libreria.

La mia unità di misura resta il singolo euro (talvolta anche i cinquanta centesimi) da consegnare in cambio di un BUR o similare. Il tenue riscatto da pagare per sottrarre la memoria all’oblio.

È un’idea melensamente romantica e dunque assai comune, ne sono consapevole. Un concetto intriso di quella femminea cura per un passato ormai smarrito, che cerca di opporsi, non senza civetteria, agli sviluppi del digitale.

Ma quante se ne potrebbero dire, di verità ancora più melliflue, su ciò che comporta il portarsi in casa un testo già letto da altri: scoprirne i segnalibri improvvisati, le cartoline dimenticate, i segni a matita! Nel mio caso, compiacermi scoprendo che il lettore ignoto (e quasi certamente passato a miglior vita) evidenzia i passaggi prediletti alla mia stessa maniera, non con linee orizzontali in corrispondenza del rigo, ma con una sottile traccia verticale sul margine esterno, a racchiudere il passo come una parentesi senza convessità.

Intorno a ciò parlino pure altri; io condividerò i loro sentimenti e le loro intuizioni, perché alla magia del libro usato credo fortemente. Oggi voglio invece ricordarmi dell’adrenalina per le nari che accompagna il fiutare selvaggio, le inclinazioni del capo per leggere al volo un titolo di traverso, le operazioni di scavo e di serrata contrattazione, le focose imprecazioni dopo essermi reso conto di aver acquistato un doppione, o solo la prima parte di un’opera in più volumi. E poi le più dolci rassicurazioni: tanto era solo un euro.

Osservando il grigiore di questa mattina lontano dalla Sicilia, voglio avvertire il peso delle mie buste confluire nella lenta fiumana di altre buste cariche di cavoli, di arance, di pesce, di vestiti usati, sigarette da contrabbando, giocattoli o altri ammennicoli.

Voglio udire, entrando e uscendo dal teatro di caccia, una certa cantilena sfibrata che risuona come un violento singulto, dalla cadenza sempre identica negli anni. Giunge dall’uomo che gestisce la prima bancarella, insieme al pungente odore dello spinello che sovente egli tiene acceso tra le labbra: libri a un euro, libri a un euro, cibo per la mente!

Voglio calcolare in anticipo — esercizio aritmetico di eterna giovinezza — il conto finale da pagare nella seconda bancarella, quella dello sconosciuto che più mi sta simpatico e che chiamo, per distinguerlo, il mio amico. Il quale amico, degno del suo nome, è solito ridurre il conto totale in funzione dei volumi acquistati: tre da due euro a cinque euro complessivi; tre da un euro a due euro; tre da tre euro a otto euro.

Infine, voglio allungare il collo nella speranza di scorgere la terza e ultima bancarella, celata dietro una schiera di abiti appesi sui tendoni come impiccati al tramonto. È la più eterea e stocastica, quella dei libri a cinquanta centesimi, che ospita sempre un numero inspiegabile di testi in lingua tedesca. Forse per ricordarmi che il grigiore di un altro paese verrà presto a ricingermi.

Per le festività di Natale tornerò a caccia, forse di martedì o di giovedì. Mi auguro che non piova, che la selvaggina sia varia e in buona salute, che nessun venditore pensi di partire per le vacanze.

Andrò di mattina, sul presto, provenendo al solito da Via Umberto. All’angolo, nella traversa che porta alla piazza del mercato, languisce da qualche tempo un rigattiere sul quale non ho mai poggiato lo sguardo troppo a lungo. L’ultima volta, nel mezzo della strada, esponeva un triste passeggino di plastica per bambole: quasi interamente di un magenta acceso che feriva la vista, con la tela giallastra e sfibrata a coprire la seduta. Aveva preso il posto di un cavallino a dondolo, rimasto invenduto per lungo tempo. 

Una donna di passaggio fu sul punto di rompersi il collo inciampando contro l’inutile giocattolo. Subito, un ferroso cigolio si levò dalla bancarella di fronte, appena più interna. La risata apparteneva al primo dei tre librai, accompagnata da motteggi che non seppi intendere. Poi, di nuovo, truce e solenne insieme, come una litania consolatoria: tutto a un euro, libri a un euro! Cibo per la mente!