Meditazione V

«Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove.»

Appartiene al Vincenzo Consolo de Le Pietre di Pantalica questa riflessione che sento molto vicina. La condivido però in via del tutto dottrinale: la voglia di girare la Sicilia mi solletica sempre, ma la pratica è ben diversa.

In qualche modo, finisco sempre per incappare in un buco nero che inghiotte ogni mia volontà, in un cul-de-sac che mi impedisce di proseguire. Per un motivo o per un altro, finisco sempre a Palermo.

Dopo aver saputo che anche quest’estate vi avrei trascorso un breve soggiorno, un amico che non apprezza le gioie della letteratura ha sentenziato che per me Palermo è semplicemente inevitabile. Faccio mio anche questo secondo pensiero, certo più esile e piano nella forma rispetto a quello del Consolo, eppure altrettanto sensato.

L’inevitabile Palermo mi attira ogni anno, talora più volte l’anno, anche solo per pochi giorni. Pranzo negli stessi ristoranti e alloggio sempre nello stesso albergo, ben situato sul crocevia del Teatro del Sole. La posizione mi consente brevi e frequenti pause dal mio perpetuo vagabondare. I luoghi che visito sono sempre i medesimi: cammino per cerchi concentrici che ogni volta si allargano un poco di più, lungo l’asse di via della Libertà e oltre Porta Nuova.

Un bighellonare che può apparire tedioso e ridondante, ma che a me ricorda il paziente lavoro di affinamento di una prosa, partendo da pagina uno per approdare all’atollo su cui la scrittura si è interrotta. Si capisce: prima della revisione definitiva, le pagine più vicine al principio riceveranno un trattamento particolare, mentre in una impercettibile penombra resteranno quelle via via più distanti.

A Palermo non riesco a sfuggire nemmeno nei sogni, e qui avrei da narrare un fatto piuttosto curioso. Si tratta di una storia a cui vorrei dedicare in futuro una meditazione a sé, perché ritengo possa meritarla. Nei miei sogni, esiste infatti un luogo che io identifico razionalmente come Palermo, ma che assai poco rassomiglia alla città. Al contrario, sembra possedere i tratti di un piccolo borgo marinaro, insieme a quelli di una cittadina medievale.

Tante volte l’ho sognato e tanto sovente vi ho ripensato, che potrei tracciarne una mappa discontinua. E ad ogni modo, ciò che conta è che Palermo, per me, sia inevitabile anche in sogno. Da desto o da dormiente, il suo fascino mi è imperituro. Per questo motivo, ogni volta che la visito, cerco le stesse sensazioni che provai la prima volta in cui la conobbi, nell’età della ragione.

Mi ci recai in occasione del mio compleanno. Passeggiando lungo via Vittorio Emanuele che lentamente si apre sulla Cattedrale, nel tardo pomeriggio di un mercoledì di marzo, mi chiesi come fosse possibile che, attorno e in seno a una città tanto gloriosa, potesse trovare posto anche una sfilata dei peggiori errori che attanagliano la mia isola. 

All’epoca, assai più giovane e irrequieto, tendevo a riconoscere  solo i mali più direttamente visibili, udibili, avvertibili, suggestionanti; insomma, non certo i vili affari degli spettabili signori preposti all’amministrazione della cosa pubblica!

Fu interessandomi per caso al Sacco di Palermo che finalmente presi a indagare il passato recente della mia regione, insieme a quella lunga serie di rapporti di potere che rappresentano l’intera gamma cromatica delle abiezioni italiane: servilismo, cortigianeria, spregiudicatezza, malcostume, corruttela, impostura e sfacciataggine.

Più tardi, appassionandomi alle vicende dell’Inquisizione, mi accostai con crescente interesse agli studi che indagano i rapporti tra la nobiltà isolana e il potere centrale spagnolo. In quelle pagine, mi fu possibile scorgere le stesse fattezze della classe dirigente attuale, e compresi perché Leonardo Sciascia riteneva che l’intera storia del potere in Sicilia potrebbe ricavarsi solo da un’analisi approfondita di quel periodo storico.

Perché così mi appare il potere in Sicilia: un eterno ritorno, una reincarnazione da vitellone in vitellone, un uroboro che si morde la coda e si sfrega le mani sudicie di stallatico. 

Ecco puntuale l’ultimo scandalo, frutto di un’inchiesta della Procura di Palermo che coinvolge esponenti politici e funzionari pubblici. Complessivamente, sono state emesse misure cautelari per quindici soggetti. Le accuse sono allo stesso tempo le più gravi e le più prevedibili: associazione a delinquere, turbativa d’asta, corruzione. Oggi è la Sanità, ieri i fondi della Cultura, ieri l’altro le magagne dell’Assessorato al Turismo.

«Palermo è bella, facciamola più bella!»

Ripenso al Sacco di Palermo e mi sovviene questo slogan politico, strillato di fronte a enfie folle di cittadini. Davvero qualcuno proclamava di voler rendere la città ancora più bella, in quegli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta. In verità, dietro al motto grossolano si celavano le più spregiudicate speculazioni edilizie.

Palermo è bella, facciamola più bella. Piuttosto, ci sarebbe da augurarsi un’accurata disinfestazione (o defenestrazione) straordinaria. Perché per rendere l’Italia tutta ancor più bella, basterebbe privarla di tanti suoi illustrissimi amministratori.