Mentre i numeri della Rivista ascendono e lo schermo si illumina di aguzzi dardi rialzisti — più trecentottanta percento; più duecentodue percento; più quattrocentoundici percento — a me non resta che aprire la sezione Racconti in Sospeso. Si tratta della categoria destinata ad accogliere le voci di autori contemporanei, in contrappunto ai Classici in Sospeso e ai Pensieri in Sospeso.
Chiunque abbia un racconto da inviare potrà contattarci secondo le modalità indicate nella sezione apposita. Non sono previsti limiti di caratteri o di tematica, ma poiché artefice e opera coincidono sempre almeno in buona misura, i gusti della Rivista non possono che riflettere quelli del sottoscritto.
Ho dunque pensato di affidare a questa Meditazione il mio ideale di scrittura. La speranza è che possa servire da traccia a chi desideri presentare un racconto, e che non susciti troppe levate di sopracciglio a chi invece, più saggiamente, si limiterà a leggere le nostre pagine.
Per tutta la mia giovinezza, e financo ben oltre, io ho dormito e mi sono svegliato in mezzo ai giganti. Mi riferisco ai grandi autori classici di ogni epoca e di ogni patria, che spero di poter ricordare e far riscoprire su questa Rivista. Oggi non dormo più con la libreria accanto al letto; non rischio più, nel sonno, di smuovere un libro dal dorso rattrappito. E nel destarmi, non scorgo più, ancora nebulose ai miei occhi, le piramidi di volumi ammonticchiati. In compenso, ho guadagnato una chioma biondo cenere, pigra e sonnacchiosa. Se stendo il braccio per sfiorarla, ricevo in cambio un brontolio o un sospiro appagato. I libri si trovano a distanza di sicurezza, dove il loro polvericcio non rischia di provocarle una grave reazione allergica nel cuore della notte.
Dopo accurate misurazioni, posso confermare che dormire e svegliarsi in mezzo ai giganti non fa crescere in altezza. Se chi va con lo zoppo impara a zoppicare, chi va con i giganti impara tutt’al più a leggere. Se bastasse frequentare Balzac tutta una vita per divenire anche solo un suo modesto epigono, io certo mi dedicherei a tale esercizio per il resto dei miei giorni. Quel che davvero possiamo apprendere dai classici è la capacità di ponderare il peso specifico di ogni parola.
Ritengo che questo insegnamento sia oggi assai poco seguito, tanto dagli scrittori affermati quanto da chi muove ancora i primi passi. O non prestano attenzione durante la lezione, oppure la saltano del tutto: in altri termini, non leggono abbastanza classici prima di impugnare la penna, oppure li leggono male. Dalla mia solenne cattedra di autore dotto e raffinato con ben zero pubblicazioni all’attivo, mi permetto allora di condividere alcune sagge osservazioni.
C’è chi sostiene che la bellezza della letteratura risieda nelle possibilità che essa dischiude: vivere altre vite, esplorare mondi ignoti, o, più utilitaristicamente, apprendere preziose nozioni. Benissimo, sottoscrivo e rilancio!
La gioia più grande, per me, è contemplare lo spettacolo delle parole che si affiancano, cariche di significato, senza pestarsi i piedi a vicenda. Allineare sul rigo una dozzina di vocaboli, tutti ben pasciuti, separarli appena con una virgola o con il vuoto etereo della cellulosa e osservarne compiaciuto il girovita: ciascuno occupa il suo posto alla perfezione, e, se ne interpellate uno, rispondono tutti all’unisono.
Nello scrivere, mi pesano sovente le fasi di ideazione, ove la vicenda va condotta e i personaggi sono costretti a rimbeccarsi. Mi diverte invece, mi sollazza, il momento in cui occorre affinare una frase come si rivernicia un mobile, cancellare le storture come si ripara un motore. Quando si crede di aver raggiunto il risultato migliore, accorgersi — spesso dopo giorni — che resta ancora una lieve bombatura, un filo di vernice mancante. E dunque rimettere mano, nella speranza di non guastare l’allineamento raggiunto con tanta fatica.
Un buon classico testimonia a ogni pagina la paziente opera di cura su cui mi sono fin qui soffermato. In questo senso, e solo in questo, i testi che desidero ospitare su Rivista in Sospeso dovrebbero somigliare ai classici che mi accompagnano da sempre.
Ma solo ora, dopo tante parole spero ben allineate, mi sovviene che la scrittura è soprattutto un ammorbamento del reale, una sua trasfigurazione. Risponde ai medesimi processi fisici, ben determinati e riconoscibili. Mai potrà piegarsi ai verdetti immodesti del sottoscritto o di chiunque altro. Come la bufera non cessa perché lo desidero, o il sole non splende solo perché lo rimpiango.
Dunque, non affannatevi a compiacere alcun lettore e inviate pure i vostri racconti all’indirizzo mail della redazione. Ho un’unica preghiera, e spero non suoni come un capriccio: affinché io possa continuare a leggere con lo stesso paio di occhi per il resto dei miei giorni, badate alla formattazione del testo come si bada all’igiene personale.
