Savannah-La-Mar, di Thomas de Quincey

Dio colpì Savannah-La-Mar, e, in una sola notte di terremoto, la portò, con tutte le sue torri intatte e i suoi abitanti immersi nel sonno, dalle solide fondamenta della riva al fondo corallino dell’oceano. E Dio disse: «Sotterrai Pompei e la nascosi agli uomini per diciassette secoli: sotterrerò questa città, ma non la nasconderò. Essa sarà per gli uomini un monumento della mia ira misteriosa, incastonato in luce azzurra per tutte le generazioni a venire; poiché la racchiuderò nella cupola di cristallo dei miei mari tropicali.» 

La città, come un possente galeone con tutte le vele spiegate, i pennoni al vento e in perfetto arnese, sembra navigare per le silenti profondità dell’oceano e spesso, nelle vitree calme, attraverso la traslucida atmosfera marina che ora si stende come una tenda tessuta d’aria sul silenzioso accampamento, i marinai di tutti i paesi abbassano lo sguardo verso le sue corti e le sue terrazze, contano le sue porte, ed enumerano le guglie delle sue chiese. La città è un unico vasto cimitero e tale è già da molti anni; ma nelle possenti calme che per intere settimane covano sulle latitudini tropicali, essa affascina lo sguardo con una rivelazione di Fata Morgana, come di vita umana che ancora sussista nei rifugi sottomarini, immuni dalle tempeste che tormentano la sovrastante nostra atmosfera.

Colà, attirato dalla bellezza dei cerulei abissi, dalla pace delle umane abitazioni protette da ogni molestia, dal barlume dei marmorei altari addormentati in eterna santità, spesse volte nei sogni fendetti, col Cupo Interprete, il velo d’acqua che ci divideva dalle sue strade. Guardammo nei campanili, dove le campane sospese attendevano invano il richiamo che avrebbe risvegliato i loro squilli nuziali: insieme toccammo le possenti canne d’organo che non cantavano jubilate per il divino orecchio, né cantavano requiem per l’orecchio del dolore umano; insieme scrutammo le tacite stanze dei bimbi, dove i piccini erano tutti addormentati, e dormivano da cinque generazioni. «Essi attendono l’alba celeste,» sussurrò fra sé l’Interprete, «e quando questa verrà, le campane e gli organi canteranno uno jubilate ripetuto dagli echi del Paradiso.» 

Poi, volgendosi a me disse: «Questo è triste, compassionevole; ma meno non sarebbe bastato all’intento divino. Guarda, metti in una clessidra romana cento gocce d’acqua, lasciale cadere come i granelli in un orologio a sabbia, in modo che ogni goccia misuri la centesima parte di un secondo, cosicché ognuna rappresenti la trecentosessantamillesima parte di un’ora. Ora, conta le gocce mentre cadono; e quando passa la cinquantesima, osserva! quarantanove non sono più perché già sono perite; e cinquanta non esistono perché sono ancora da venire.

«Tu vedi, dunque, quanto sia limitato, incalcolabilmente limitato, il vero e reale presente. Di quel tempo che chiamiamo il presente, appena una centesima parte non appartiene a un passato che è già fuggito o a un futuro che ancora si avanza. Il resto è morto o non è nato ancora; è stato o non è. Pure, anche questa approssimazione alla verità è infinitamente falsa. Poiché, suddividi ancora quella goccia singola che, unica, abbiamo riconosciuto immagine del presente, in una serie più minuta di frazioni simili, e il vero presente che tu arresti non misurerà ora che la trentaseimilionesima parte di un’ora; e così per infiniti sgretolamenti il vero e reale presente, in cui solo noi viviamo e godiamo, svanirà nel granello d’un granello, che soltanto un occhio divino potrà distinguere. Perciò il solo presente che l’uomo possiede, offre al suo piede minor appoggio della più tenue tela che ragno abbia mai filato dal suo grembo. E perciò anche questa imponderabile ombra della più piccola pennellata di luce lunare è più transitoria di quanto la geometria possa calcolare, o pensiero d’angelo possa afferrare. Il tempo che è si contrae in un punto matematico; e anche quel punto perisce mille volte prima che se ne possa annunciare la nascita. Tutto è limitato nel presente; e anche questo limite è illimitato nella velocità della sua corsa verso la morte. Ma in Dio non vi è nulla di limitato; in Dio non vi è nulla di transitorio; in Dio non può esservi nulla che tenda verso la morte. Perciò, per Dio non può esservi un presente. Il futuro è il presente di Dio e al futuro Egli sacrifica l’umano presente. Così accade che Egli si serva del terremoto. Così accade che Egli si serva del dolore. Oh! il terremoto era profondo!»

La sua voce si alzò come un sanctus che si levi dal coro di una cattedrale, «oh, il dolore era profondo! Ma spesso non basterebbe meno per l’agricoltura di Dio. Su una notte di terremoto. Egli costruisce mille anni di piacevoli abitazioni per l’uomo. Sul dolore di un bimbo Egli spesso coltiva dagli umani intelletti gloriose vendemmie che non avrebbero potuto essere altrimenti. Vomeri meno potenti non avrebbero smosso il suolo caparbio. L’uno è necessario per la terra, il nostro pianeta… per la terra stessa come luogo d’abitazione dell’uomo; ma l’altro è necessario ancor più spesso come il più possente strumento di Dio; si,» e mi guardò solennemente, «è necessario per i misteriosi figli della terra!»


tratto da: Suspiria De Profundis. Di Thomas de Quincey