Il Sacramento della Penitenza, di Federico De Roberto

La prima messa, a San Giorgio, era poco frequentata: donne di umile condizione, in vesti dimesse, inginocchiate dinanzi alle seggiole; qualche vecchio seduto sulle panchette di legno; due o tre beghine appartate in un angolo, riconoscibili al pallore clorotico del viso, alla rigidità quasi meccanica del gesto con cui sgranavano i loro rosari. In tutto, una trentina di persone.

La chiesa era piccola, moderna, d’architettura semplicissima, priva di quelle rarità artistiche che attirano nelle case della preghiera l’irriverente processione dei curiosi, dei touristes con la guida sotto il braccio e il binocolo a bandoliera. Le pareti, quasi nude, risplendevano d’un candore abbagliante; il pavimento di marmo, a grandi lastre bianche e nere, rifletteva la luce con lucentezza di specchio. In quell’ordine rigido, in quella severa nudità che regnava tutt’intorno, si rivelava uno spirito rifuggente da ogni pompa, sollecito soltanto della concentrazione interiore e dell’adorazione.

Era padre Ladislao, rettore di San Giorgio, l’officiante di quell’ora mattutina. La sua figura giovane e raccolta, austera nei semplici paramenti, con la fronte alta e spaziosa, gli occhi ceruli, la carnagione delicata, le mani bianchissime e mirabilmente modellate che toccavano leggerissime i sacri arredi dell’altare, presentava un’intima, perfetta corrispondenza con quell’ambiente severo e insieme luminoso.

San Giorgio era tutto un mondo per padre Ladislao, l’oggetto delle sue cure più assidue; e, per continuare a reggere quella chiesa, egli ritardava volontariamente l’avanzamento che lo attendeva da molto tempo nella gerarchia ecclesiastica.

L’anello piscatorio e il pastorale sarebbero già toccati da tempo a padre Ladislao Mantaldi, dei principi di Valdiriva, e qualcuno arrivava persino a predirgli il rosso cappello cardinalizio. Non erano soltanto le tradizioni della grande famiglia, la sua potenza, le sue relazioni, che gli spianavano così la via ai più alti gradi; era ancora, e più, la vasta intelligenza, la cultura varia, lo zelo illuminato, la modestia esemplare, la purezza dei costumi: tutte qualità che facevano di quel gran signore una delle speranze della Chiesa napoletana.

E bisognava stimare irresistibile quella vocazione che lo aveva spinto a rinunciare, in età giovanissima, alle seduzioni del mondo e alla eccelsa posizione a cui era naturalmente chiamato, per indossare l’umile veste nera del seminarista. Più tardi, quando giunse l’ora di pronunciare i voti irrevocabili, e una sola parola avrebbe deciso dell’intera sua vita, si credette che egli si sarebbe arrestato dinanzi alla definitiva, irreparabile rinuncia. Ma quella parola Ladislao Mantaldi la pronunciò con voce ferma e sicura: e tutto fu detto, per sempre.

Per scoprire l’autore ignoto di un delitto, il magistrato possiede un criterio ordinariamente sicuro: cercare se il delitto può avere arrecato vantaggi, e a chi. Chi si fosse posto una simile domanda dinanzi alla rinuncia di Ladislao Mantaldi sarebbe stato messo sulla via della verità. Dando addio al secolo, egli, primogenito, lasciava al fratello minore, col titolo del nobilissimo casato, l’eredità dei beni terreni; e la cieca passione che la principessa madre nutriva per il secondogenito spiegava il sacrificio al quale Ladislao, di carattere mite, ossequente, rassegnato, fu persuaso a compiere.

Egli, tuttavia, non aveva inteso pronunciare i suoi voti come una mera formalità, né con quelle restrizioni interiori così frequenti che modificano, e talvolta annullano, gli impegni che si afferma di assumere dinanzi a sé e a Dio. Nella nuova vita, a cui l’educazione religiosa impartita dalla madre lo aveva preparato fin dall’infanzia — quando, sotto la guida di un vecchio prete, le sue passeggiate avevano per meta un antico convento, e persino i suoi giochi consistevano in rappresentazioni sacre — Ladislao entrò interamente, senza transazioni di sorta, con un fervore capace soltanto di attutire la sorda voce che rammentava le dolcezze delle gioie terrene.

Per il giovane, imbevuto di precetti rigidamente impartiti e privo d’ogni esperienza personale, fu a lungo motivo di sconforto il ritorno frequente di quella voce, la visione ostinata di ciò che aveva già imparato a considerare come il Male. La purezza delle azioni gli pareva cosa mediocre, se non corrispondeva a quella dei sentimenti; e con terrore infinito si scopriva impotente non solo a domare, ma persino a guidare il proprio pensiero. In quella dolorosa incertezza, in quella intima impotenza, temette di correre verso la perdizione eterna, ingannando gli uomini e Dio con le aspirazioni a una santità che si sentiva incapace di conseguire proprio là dove essa sarebbe stata più meritoria: nel dominio spirituale.

Lo spirito d’analisi — grandezza e tormento dell’uomo moderno — non è forse che un effetto della legge cattolica dell’esame di coscienza? Quale che ne sia l’origine, certo è che, in certe nature superiori, esso prende uno sviluppo smisurato, dove la sottigliezza dell’indagine cresce in ragione inversa della chiarezza dei risultati. A un tale stato intimamente angoscioso lo aveva ridotto la lunga pratica di scendere in fondo alla propria coscienza, fino al punto di temere che la sua ingenua persuasione di indegnità fosse una suggestione perversa, un pretesto comodo escogitato per evitare la via della rinuncia e soddisfare segrete brame.

In quell’ora di smarrimento, la parola del suo primo maestro — l’umile prete che aveva sorretto i suoi passi giovanili e che venerava come un padre — lo trasse dall’angoscia, dimostrandogli l’universalità di ciò che egli aveva creduto un caso singolare, una morbosa impotenza esclusiva della sua natura. Così egli imparò a misurare l’abisso che separa sempre l’azione dall’intenzione; comprese l’irriducibilità del pensiero, l’incoscienza con cui si compiono le operazioni dello spirito; e, rassegnatosi alle inconfessate e spesso inconfessabili suggestioni della mente, la sua vocazione si fece più salda, più sicura, con il dovere che ora si tracciava nitido davanti a lui: illuminare le anime, guidarle, sorreggerle con tanto maggior zelo quanto più forte e naturale era in esse la probabilità della colpa.

Una reputazione di santità fu il frutto di quella abnegazione; una fama di cui egli avrebbe sorriso, con una sfumatura d’amarezza, se non fosse prevalso in lui lo spirito di compatimento per gli errori degli uomini. Quel giorno, come sempre quando dominava dall’altare la folla sparsa qua e là nella chiesa, il contrasto fra il rispetto e la devozione — un poco meravigliata — che si leggevano negli sguardi di quanti lo circondavano, e la sua intima sfiducia di esserne degno, occupava la sua mente intanto che si preparava al mistero dell’elevazione.

Se gli uomini avessero potuto leggergli nell’anima, in quell’ora! Se avessero potuto sospettare il dubbio che vi teneva tenzone, mentre egli teneva gli occhi chini sul messale e le mani giunte in segno d’adorazione!… In quei momenti, per l’attenzione stessa di cui era fatto oggetto, il dubbio s’ingigantiva; egli si persuadeva della propria indegnità, dell’ipocrisia che consisteva nel presumere di farsi curatore di anime, lui che per primo aveva bisogno di essere guidato.

In una rapida evocazione riprovava allora le inquietanti impressioni dell’adolescenza, quando, di tratto in tratto, tornava nel sontuoso palazzo degli avi e, come dietro un sipario, intravedeva il magico spettacolo del mondo e delle sue attrattive. Così, l’acuto profumo dei fiori freschi — unica nota vivace sparsa su quegli altari quasi nudi — gli recava un turbamento profondo. Ma un istante dopo la crisi era superata: egli aveva improvvisi slanci interiori di sommessione e di sacrificio che lo redimevano ai propri occhi.

E quando l’ostia si elevava, in un nembo d’incenso, egli si prostrava con lo spirito, si faceva umile, si annichiliva; e sul suo volto non si leggeva più che una pietosa serenità.

II

La messa era finita. Come le sacramentali parole furono pronunziate, si levarono per la piccola chiesa rumori diversi: urti di sedie rimosse, stropiccii di passi. Padre Ladislao, passato nella sacrestia, si disponeva a spogliarsi dei suoi paramenti, quando ad un tratto il giovane seminarista che aveva servito all’uffizio, attardatosi in chiesa, venne a raggiungerlo con animazione nel bel volto bianco e dagli occhi intelligenti.

— Padre Ladislao — diss’egli, mostrando col braccio disteso la porta di legno scolpito a bassorilievi —, vi è in chiesa una signora, una signora entrata poc’anzi, che domanda di lei per confessarsi.

— Ebbene?

— Che cosa debbo dirle?

— Che vengo subito.

Il seminarista scomparve, mentre padre Ladislao finiva di rivestirsi con lentezza un poco in contraddizione con la sua pronta risposta. In verità, egli non si sentiva disposto alla confessione quel giorno: il suo spirito mancava della necessaria lucidità, ed erranti nebbie lo velavano. Nondimeno, come fu pronto, rientrò in chiesa.

Si era appena avanzato di qualche passo, quando scorse la donna inginocchiata accanto a un pilastro, col velo nero — come la veste — gettato sulle spalle. Egli stese a un tratto un braccio tremante, quasi in cerca di un appoggio, e si scolorì rapidamente in viso.

Vistolo, ella gli s’era avvicinata, prendendogli una mano e portandola alle labbra, prima ancora che egli avesse potuto opporsi a quell’atto.

— Padre, se non la disturbo…

Era lei! La sua figura, la sua voce!… Il suo lontano sogno di giovanotto improvvisamente riapparso, con l’intensità della vita stessa, col contatto bruciante di quelle labbra che gli ardevano la mano, malgrado egli tentasse di cancellarne con l’altra l’impronta…

Ella parlava con passione:

— Quante volte ho resistito, quante volte ho pregato il Signore di darmi quella forza che a poco a poco mi veniva meno; quante volte ho invocato la generosità di quell’uomo, sempre più insistente…

La voce di lui rispose, dura:

— Non bisogna contare sulla generosità degli uomini.

— Ah, sì! — esclamò ella. — È stato forse questo il mio errore; per questo mi sono sentita trascinare sempre più vicino all’orlo della colpa, da rasentarlo… da esser considerata come perduta!… Ah, che dolore e che vergogna, all’accusa menzognera! Perché non è vero, padre! Perché se ho peccato col pensiero, non ho peccato con le opere!… E non esser creduta! E non aver nessuno al mio fianco, dinanzi a cui piangere le lacrime dell’innocenza e del rimorso; dover comporre una maschera di serenità dinanzi all’uomo che ho offeso; non trovarmi accanto mia figlia… Io piangerei dinanzi a essa, ma non sarei costretta ad arrossire! Lo giuro a Dio, sulla mia salute eterna… Padre… Padre, mi ascoltate voi?

La voce rispose, dolce e lieve:

— Ti ascolto, figlia mia, come ti ascolta tua madre di lassù.

Allora ella ruppe pianamente in pianto. Gli occhi aridi, le guance ardenti furono tutti irrorati di lacrime; l’eccitazione dello spirito sconvolto si scioglieva in quella crisi benefica.

— Madre mia!… Madre mia!… Che buona parola!… Come fa bene poter piangere!… Sarò dunque perdonata?

— Sempre che ne avrai la speranza.

— Il pianto non è dunque una debolezza, se io mi sento ora più forte di prima, più disposta a uscir vincitrice dalla lotta?… Che bene mi avete fatto, padre mio!

— Bisogna guardarsi dall’eccesso della fiducia, dopo l’eccesso dello sconforto. A sostenerti, riprendi tua figlia presso di te: il posto delle figlie è accanto alle madri. Pensa che essa penserà a te, come tu oggi pensi a tua madre; pensa che l’amore, l’odio, l’ambizione, l’invidia, tutte le più forti passioni finiscono prima di noi, e che, quando tutto è finito, una cosa resta: la soddisfazione del dovere compiuto.

Egli parlava ancora, sotto voce, con una dolcezza profonda, quando ella lo interruppe:

— Sì, è vero, è giusto!… Grazie, padre; grazie del bene che mi avete fatto… E potrò ancora ricorrere a voi?

— Ogni volta che ne avrai bisogno.

Ella restò ancora un poco in orazione; poi si levò, attraversò lentamente la chiesa, bagnò le dita nella pila dell’acqua santa, si curvò ancora voltandosi, ed uscì.

III

Il seminarista, che aveva finito di mutare le tovaglie degli altari per la prossima festa, vedendo che padre Ladislao non usciva ancora dal confessionale, si avviò verso di lui.

Al rumore di quel passo, il confessore venne fuori. Era straordinariamente pallido in viso e aveva uno sguardo incerto, che fece chiedere al piccolo chierico:

— Padre, la confessione l’ha stancato?

— No, no…

— Allora, si fa oggi la prova della cantata?

— Domani, Luigi; dirai che vengano domani. Oggi ho qualche cosa da fare.

Diede ancora alcune disposizioni; poi uscì, dirigendosi verso la città alta. Camminava rapidamente, col capo chino, senza guardare nessuno. In breve si lasciò dietro le ultime case, ed avanzò per l’erta della collina. Gli alberi proiettavano il loro verde tenero sull’azzurro del mare; un mare tranquillo come un lago, popolato qua e là di stormi di piccole vele.

La strada, nei suoi zigzag, rasentava l’orlo della scoscesa, difesa soltanto da un basso parapetto, e l’occhio, di lì, dominava l’abisso. Padre Ladislao procedeva sempre con passo eguale. A volte, un alitare più forte della brezza gli avvolgeva tra le gambe la nera veste, impacciando il suo andare. Egli sostava un momento, portava una mano al cappello e spingeva lo sguardo lontano, verso l’orizzonte.

Giunto finalmente dinanzi a un cancello arrugginito, fra due pilastri di mattoni dai quali l’intonaco era quasi tutto scomparso, lo spinse ed entrò nel grazioso podere, piantato a vigne dalla rigogliosa vegetazione.

Sulla piccola spianata della casetta, all’ombra d’una tettoia, un prete vecchissimo stava seduto sopra una poltrona di cuoio, reggendo un breviario con le mani scarne. Come i passi si avvicinavano sempre più, egli volse un poco il capo e, posando il libro sulle ginocchia, con le mani stese verso l’arrivante ed una espressione di letizia nello sguardo, esclamò:

— Ladislao, ragazzo mio!

Il nuovo venuto prese una di quelle mani, la portò alle labbra e la baciò. Poi, curvandosi un poco, quasi in ginocchio e con la testa bassa, disse:

— Padre, sono venuto per confessarmi.